Critic@mente – Il porto dell’amore

Ecco un autore ancora troppo poco noto: Giovanni Comisso. Per anni tacciato (ingiustamente) di dannunzianesimo, finalmente sembra acquisire un suo spazio nella storia della letteratura italiana, anche grazie alle nuove ristampe delle sue opere a cura di Longanesi.

Il porto dell’amore (1924), poi ristampato come Al vento dell’Adriatico, sebbene opera prima, porta già tutti i tratti caratteristici dell’autore, soprattutto quella sensibilità e sensualità hic et nunc che risulterà una delle sue caratteristiche più amate e al contempo più odiate, e che trova immediato riscontro nel suo tratto distintivo: una sintassi particolarissima.

Uno scrivere che non rifugge possibili “sgrammaticature” o forzature quando queste siano connaturate con il respiro della prosa, e proprio in quest’ottica sembra quasi che il tessuto prosastico si adatti al naturale respiro del lettore. La stessa punteggiatura più che secondo schemi grammaticali sembra assecondare il respiro, dettarne i tempi; e proprio quando meno te lo aspetti Comisso nella sua scrittura quasi astorica ecco che se ne esce con preziosismi, termini aulici che sembrano quasi discordare con il resto del testo e che invece formano quell’unicum composito che è proprio del modus scribendi del trevigiano.

Da notare in tal senso i ricordi di Fiume, nei quali praticamente (se non in un caso) d’Annunzio non compare, ma dai quali traspare il clima, il ritmo, la vivacità di quei giorni, senza alcuna connotazione politica (verso la quale Comisso era “impermeabile”), ma con la semplicità dell’attimo vissuto e goduto profondamente.

Il porto dell'amore

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